Le armi della giustizia

Popoli, governi, propaganda e quella politica lenta che possiamo ancora esercitare ogni giorno.


C’è un’abitudine, molto diffusa e molto umana, che salta fuori ogni volta che nel mondo succede qualcosa di grave: cercare un colpevole semplice.

Un governo invade, bombarda, opprime?
E subito si dice: “Colpa dei russi.”
“Colpa degli americani.”
“Colpa degli israeliani.”
“Colpa dei palestinesi.”

Come se i popoli e i loro governi fossero la stessa cosa.
Come se le persone che vivono in un luogo avessero davvero scelto, condiviso, approvato ogni singola azione di chi comanda.

Popoli e governi non sono la stessa cosa

È curioso come questa semplificazione la vediamo benissimo quando riguarda noi stessi.

Quanti italiani si sentono rappresentati dal governo Meloni e saltimbanchi associati?

Eppure nessuno dice “gli italiani sono così” per giustificare le scelte del governo. Al massimo ci si scusa, si spiega, si ride amaro: “Non è che ci rappresentano davvero.”

Ma quando guardiamo altrove, questa finezza spesso sparisce.

Con gli altri popoli siamo molto meno generosi.

La vera questione: quanto funziona il meccanismo?

Alla fine la domanda che resta è questa:
Quanto bene funziona, in un paese, la trasmissione tra la volontà popolare e le decisioni di chi governa?

Nei regimi autoritari è quasi inesistente, anche se ogni dittatore non perde occasione per dire che lavora per il bene, per la grandezza della nazione.
Nelle democrazie c’è — sulla carta — ma spesso deformata, manipolata, ridotta.

Chi governa interpreta, filtra, distorce. In genere agisce per tornaconto personale o per consolidare il proprio potere.

E quindi giudicare un popolo intero per le scelte del suo governo è sempre un’operazione rischiosa. Spesso ingiusta. Sempre semplicistica.

Quando un popolo non si riconosce nel suo governo: cosa può fare?

Due strumenti principali, da sempre.

Le manifestazioni

Servono. Ma hanno dei limiti enormi.

Funzionano per urlare un sì o un no netto.
Funzionano per dire “Esistiamo anche noi.”
Ma funzionano male quando si tratta di raccontare la complessità.

Una piazza, per definizione, non può spiegare le sfumature.
Una massa non può ragionare come un individuo.
Non è colpa della piazza: è la natura stessa del mezzo.

Chi scende in piazza deve scegliere uno slogan. Una bandiera. Un simbolo.

La realtà, invece, quasi mai è così semplice.

L’informazione

Scrivere, leggere, ragionare.
Diffondere idee, dati, argomenti.

È lo strumento più profondo.
Ma è anche quello che oggi fatica di più.
Perché richiede tempo, attenzione, disponibilità all’ascolto. Educazione.

E il mondo digitale, ormai, non è amico di niente di tutto questo.

E poi c’è un’altra possibilità

Quella più silenziosa di tutte.

Quella che non ha piazze, né giornali, né slogan.

Quella che riguarda il modo in cui ognuno di noi sceglie di stare nelle conversazioni quotidiane.

Una politica lenta, invisibile, personale

La gentilezza.
Il dubbio.
La curiosità.
L’apertura.

L’arte di non rispondere subito con aggressività.
La fatica di chiedere: “Cosa intendi davvero?”
Il coraggio di dire: “Non lo so.”
La voglia di ascoltare per capire, non per replicare.

Non è molto.
Non è rumoroso.
Non fa notizia.

Ma è un modo di stare al mondo che, nel tempo, costruisce.

Costruisce legami. Costruisce rispetto. Costruisce fiducia.

Ma la gentilezza non basta

C’è però un rischio, che vale la pena di riconoscere.

La gentilezza, l’apertura, la curiosità — tutti questi tratti personali — funzionano benissimo nel lungo periodo.
Costruiscono legami, abbattono diffidenze, educano lentamente chi ci sta intorno.

Ma nel breve periodo hanno un limite enorme: funzionano solo se chi abbiamo davanti è disposto almeno un po’ a fare lo stesso.

Se invece dall’altra parte c’è chi usa sistematicamente la manipolazione, la forza, la menzogna, la propaganda…
Se c’è chi parla non per costruire, ma per controllare…
Se c’è chi lucra sulla paura, sulla divisione, sull’ignoranza…

Allora la gentilezza rischia di diventare complice.
Rischia di addormentarci nell’accettazione dell’ingiustizia.

E allora che si fa?

Forse ci sono almeno due obiettivi concreti, urgenti, da coltivare sul breve periodo.

1. Leggi contro la manipolazione delle masse

Servono regole chiare, moderne, efficaci, che limitino il potere di chi costruisce consenso sulla disinformazione, sulle fake news, sull’inquinamento sistematico del dibattito pubblico.

Non è censura: è igiene democratica.

Chi controlla i canali di comunicazione oggi ha un potere enorme. Va bilanciato. Va normato. Va responsabilizzato.

2. Trasparenza totale dei dati pubblici

Nelle cose pubbliche non ci devono essere segreti inutili.

I dati devono essere aperti. Tutti.

Dai bilanci delle amministrazioni agli appalti, dai flussi di denaro alle decisioni politiche.

E devono esserci giornalisti capaci, preparati, liberi, in grado di leggere quei dati, interpretarli, raccontarli con onestà e rigore.

La trasparenza è la miglior difesa contro i manipolatori.

Alla fine resta una doppia via

La politica lenta, personale, quotidiana: gentilezza, apertura, dubbio, ascolto.
E la politica concreta, collettiva, urgente: regole e trasparenza.

Servono entrambe.

Solo così — forse — si può evitare che la gentilezza diventi rassegnazione, e che la forza resti per sempre dalla parte di chi urla di più.

2 pensieri su “Le armi della giustizia”

  1. Questo articolo fa il paio col precedente.
    Infatti li hai pubblicati quasi in contemporanea.
    Forse frutto della medesima sessione di confronto con chatgpt.

    Due brevi considerazioni:

    Le manifestazioni.
    Proprio vero quanto affermi: hanno il limite di essere intrinsecamente tranchant.
    Persino quando nascono come espressione di libertà, volontà di dissenso, …non ammettono il dissenso, o almeno il distinguo al loro interno!
    Tipiche le manifestazioni “per la pace” (sic!), che finiscono in risse con un gruppo che espone bandiere diverse.
    E non parlo di fazioni completamente opposte, tipo maggioranza-opposizione, ma anche nella stessa compagine.
    Penso in particolare alle diverse piazze che nei giorni scorsi hanno visto gruppi e gruppuscoli pro-europa, no-riarmo, no-trump-ma-sì-nato-anzi-no, no-putin-ma-nemmeno-ucraina, pro-palestina-ma-anche-israele-ha-le-sue-ragioni,…
    Ed erano tutti più o meno identificabili in quel “campo largo” che si vorrebbe proporre come alternativa! Con buona pace quindi del governo Meloni e saltimbanchi associati… (l’hai detto tu, eh! 🙂 ).

    La partecipazione.
    E qui mi riallaccio abbastanza al citato precedente articolo.
    Oltre alle semplici regolette che hai scritto lì, penso che buona parte del successo per costruire una Buona Politica si debba alla partecipazione diretta.
    Intendo “de visu”, perché sul tuo Social ci sarà sempre il rischio di fare i “leoni da tastiera”, mentre di persona questo rischio è minore.
    Di fronte ad un tavolino in birreria (o in una sede societaria, allargando il giro) è più naturale esercitare la gentilezza e il confronto.
    Secondo me.

    PS: stavo per concludere con “BUONA PASQUA”, ma poi ho pensato che mia figlia direbbe: “che cringe!” 🙂

    1. La partecipazione “de visu” ha sicuramente dei meriti, ma anche molti limiti, soprattutto se si parla di usarla per gestire milioni di persone. Infatti, anche nei casi migliori (penso all’epoca in cui esistevano ancora i grandi partiti) veniva sostituita con una partecipazione gerarchica: forse qualcuno si incontrava davvero nei circoli, nelle sezioni dei partiti per decidere qualcosa da proporre più in alto, ma credo esistessero pochi meccanismi per controllare quello che veniva poi detto/deciso negli incontri di livello superiore. No, credo ci siano poche alternative: o riusciamo a creare un modo organizzato di discutere in tantissimi online o ci becchiamo una dittatura più o meno mascherata … o (se va bene) un’AI.

Lascia un commento