Ho letto questo articolo di Luca Sofri sul blog Wittgenstein: Imagine all the people, e mi è piaciuto molto. In fondo sono cose che pensavo da tempo, ma lui le esprime molto bene. Mi ha quasi sorpreso che non abbia suscitato entusiasmo in tutti gli amici con cui ne ho parlato. La reazione di Ester, ad esempio, è stata che lei è concettualmente d’accordo, ma trova estremamente difficile metterlo in pratica: non indignarsi.
In qualche modo lo capisco, io non faccio molta fatica a non indignarmi, forse questione di indole, ma capisco che di fronte a cose che proprio non ci piacciono ci si senta spinti a fare qualcosa. Ok, non indignamoci, cerchiamo di capire … ma poi qualcosa da fare ci sarà pure. L’articolo si ferma prima di questo. Eppure una strada da percorrere, una qualche azione, sarà ovviamente necessaria.
E forse non è neanche l’indignazione la radice del problema: mi viene da dire che ‘indignazione stessa è frutto di altre cose, me ne vengono in mente tre:
- La fretta. I problemi, le ingiustizie, gli errori che abbiamo davanti sono frutto di processi durati secoli, di idee e aggregazioni sociali, di mentalità individuali e collettive che rappresentano una maturazione durata tantissimo tempo. Non si disfano in un giorno. Sofri nell’articolo cita, giustamente, il tema dell’educazione come azione immediata, ma l’educazione, quasi per definizione, ha bisogno di generazioni per produrre effetti.
- La complessità. Il mondo che ci proponiamo di capire e modificare è troppo grande per stare nella testolina di chiunque di noi. Ne afferriamo/distilliamo una parte insignificante, filtriamo le informazioni che riteniamo importanti sulla base delle nostre esperienze pregresse, e sicuramente ne scartiamo di importanti.
- La voglia di avere dei nemici. Forse è il nostro bisogno di primeggiare uno dei problemi. Non è colpa nostra, è genetico, fisiologico, forse anche importante in certi contesti. E lo stesso vale per il nostro bisogno innato di combattere, di sfidare qualcosa/qualcuno. Ma sono strumenti, non devono diventare il nostro modo di essere generale.
Ognuno di noi è convinto che la rappresentazione del mondo che, con gli anni, ha redatto, limato, messo a punto, sia quella giusta. L’indignazione nasce dal non riuscire a capire perché gli altri non la condividano. E cresce oltre misura man mano che le azioni, i ragionamenti degli altri si discostano dal quadro che ci siamo fatti. Non riusciamo ad accettare che ci siano altre rappresentazioni, diverse dalle nostre. “Come fa a dire una cosa del genere? È lampante che ha torto! Deve essere di parte, corrotto, lo fa per tirare l’acqua al suo mulino, o è semplicemente fuori di testa. Ah se fossero tutti intelligenti come me!”. E certo, ci sono anche questi motivi, gli interessi personali, una relativa miopia, incapacità di ragionare a fondo. Difetti che, d’altra parte, possiamo trovare anche in noi stessi.
Parlavo di educazione. Dicevo che ci vogliono tempi lunghi, generazioni. Lo dicevo pensando a degli adulti che educano persone più giovani. Ma il problema è ancora più intricato: cosa deve insegnare questa educazione? Se quello che ognuno di noi ha in testa è potenzialmente, sicuramente, imperfetto, cosa vogliamo tramandare alle prossime generazioni? L’educazione, forse, deve essere prevalentemente un educarci a vicenda. Educarci alla calma, alla complessità, alla gentilezza. Alla capacità di vedere nella testa degli altri, soprattutto i più diversi da noi. Capire perché quelle idee ci son finite, magari anche imparare qualcosa.
Si chiama dialogo, e forse è l’unico antidoto all’indignazione. E l’unica cosa che ha senso insegnare ai più giovani.
Mi auguro sinceramente di continuare ad indignarmi per quello che, ogni giorno, vedo, leggo e sento intorno a me. Non cerco, dunque, un “antidoto” all’indignazione quanto, piuttosto, il tentativo di operare in qualche modo per evitarla senza che questo significhi cadere nell’abitudine e nell’indifferenza. Mi (ci?) risulta sempre più difficile perché, ormai, si è superato ogni confine di decenza ed umanità fino ad ieri ritenuto invalicabile. La linea rossa si sposta, di ora in ora, più avanti e neppure abbiamo il tempo di indignarci per una malefatta che ne arriva un’altra peggiore della precedente. La rapidità del cambiamento, l’accelerazione che caratterizza il nostro tempo post moderno, sembra non limitarsi solo alla nuova rivoluzione tecnologica ed industriale ma anche al peggio che la specie umana è in grado di generare: guerre, massacri, genocidi, cambiamento climatico che porterà al suicidio e quant’altro … Andrebbe benissimo il dialogo ma temo che, per applicarlo, ci sarebbe bisogno di ascolto, empatia e disponibilità verso l’interlocutore e reciprocità di quest’ultimo nei nostri confronti. Siamo, temo, rimasti in pochi e, quasi tutti, già schierati dalla stessa parte.
Credo che il punto non sia tanto se provare l’emozione dell’indignazione, che è inevitabile, ma di cosa fare dopo. Se la reazione “politica” è quella di “fare mostra” di questa indignazione probabilmente è poco utile.
Esiste, però, una grande differenza tra “fare mostra” e “mostrare”, non credi?