Un viaggio tra Hermann Hesse, il linguaggio delle leggi e quello delle religioni: perché non sono i testi a essere sacri, ma il processo di cui sono parte.
Sono a disagio col concetto di avvocato e anche con quello di prete.
Non è una cosa personale: i pochi che conosco (i pochi avvocati e qualche prete in più, tutto sommato sono persone simpatiche). No, credo che sia la logica stessa del mestiere a essere problematica, potremmo dire la mentalità che vi sta dietro.
La cosa ha a che fare con l’uso (l’abuso?) del linguaggio.
Il linguaggio è una bella cosa. Ci permette di trasferire quello che pensiamo verso un’altra mente. Le nostre idee viaggiano attraverso l’aria, l’etere, i caratteri stampati su una pagina o colorati dai LED di qualche display e arrivano a popolare i pensieri di un’altra persona. Magia.
Beh, non ci arrivano proprio com’erano alla partenza. Forse questa è una magia ancora più grande: possiamo trasferire le nostre idee senza cancellare quelle che c’erano già nell’altra mente.
Ricevere le idee di un altro è una forma di digestione. Quando mangiamo qualcosa i composti chimici che compongono il cibo vengono smontati e rimontati fino a diventare “noi”. Qualcosa viene scartato, ma buona parte di quello che prima era un pollo, una banana, un pezzo di pane diventa parte delle ossa, del sangue, degli organi che ci tengono in vita.
Lo stesso succede con le parole che leggiamo o ascoltiamo: scartiamo quello che non siamo in grado di assimilare e il resto diventa parte quantomeno delle nostre esperienze, a volte modifica una parte più profonda, diventa la nostra mente, alcune idee diventano nostre idee.
Se poi guardiamo all’altra estremità di questo processo: il momento in cui le idee diventano parole, anche lì scopriamo che non si tratta di una fotocopia. Quando parliamo abbiamo presente un destinatario, un interlocutore, e mettiamo le parole in una busta, fatta di tono di voce, scelta delle parole, gesti e espressioni non verbali. Nel caso della parola scritta la busta è fatta anche di informazioni o reputazione dell’autore, del canale che ci trasmette quelle parole. E le parole stesse non rappresentano più esattamente le idee di partenza, ma si piegano al tentativo di comunicare con quelle determinate persone.
Le parole in sé, quindi, non possono avere grande importanza prese separatamente da questo processo di trasmissione del pensiero di cui fanno parte. È il processo la cosa importante.
Hesse
Tantissimo tempo fa ho letto un libricino di Hermann Hesse intitolato “Una biblioteca della letteratura universale”, edito da Adelphi. È una raccolta di saggi. Me n’erano piaciuti molto due in particolare: il primo, intitolato “Sul leggere libri” è decisamente legato al discorso che stiamo facendo, al processo di trasmissione di idee. Il secondo “Francesco d’Assisi” allarga il discorso ad una comunicazione ancora più interessante.
Nel primo saggio Hesse fa una specie di categorizzazione dei lettori, ne individua di tre tipi:
- Il lettore ingenuo, che segue il libro e lo consuma per quello che è, assorbe le trame, le idee, lo stile.
- Il lettore indagatore, che cerca di capire l’autore, o almeno quello che l’autore aveva davvero voluto dire con quel testo.
- Il non-lettore, il sognatore, che usa il libro come spunto per un’elaborazione personale. Potrebbe leggere un orario dei treni o la disposizione delle pietre su un muro e per lui avrebbe altrettanto valore.
Hesse non stila una classifica tra questi tipi di lettore, dice anzi che i tre stati d’animo, fasi, possono coesistere nella stessa persona, e si completano a vicenda. Secondo me mette bene a fuoco questo processo (scrivere/parlare e leggere/ascoltare) che sicuramente non si esaurisce nel mero testo, nella parola, che diventa solo un mezzo di questo evento molto complesso che è il comunicare.
Nel secondo saggio “Francesco d’Assisi”, Hesse parla dei suoi viaggi in Italia e di Francesco, della sua capacità di sentire “la voce di Dio” nel vento, negli alberi, negli animali. Parla anche dei luoghi di culto, dell’accoglienza spirituale universale. Mi aveva colpito in particolare un passo in cui racconta di fermarsi a meditare in ogni luogo sacro, indipendentemente dal credo lì professato.
Io credo che qui si parli di un’altra forma di trasmissione del pensiero, non più (non solo) da uomo a uomo, ma dal cosmo, dalla natura, da Dio (se ci credete) all’uomo. E questa è altrettanto importante dell’altra: il mondo ci parla. Continuamente. E noi abbiamo i mezzi per ascoltare e digerire anche questo tipo di comunicazione.
Il linguaggio delle leggi
E veniamo agli avvocati. Gli esperti del testo delle leggi. Ma cosa sono le leggi? Non sono anche loro una forma di comunicazione? Le leggi comunicano, da parte di chi è stato incaricato (o in qualche modo ha imposto se stesso in questo ruolo) di stabilire i modi, le regole della nostra convivenza. Ci dovrebbe essere una premessa implicita (forse in qualche caso c’è davvero) all’opera di un legislatore. Qualcosa di questo tipo:
Queste sono le regole per il nostro vivere insieme. Le esprimiamo sotto forma di obblighi, ma non lo sono. Sono l’espressione di quello che la maggioranza di noi giudica il miglior modo, oggi, di rapportarci gli uni con gli altri, dei valori che condividiamo, del progetto di quello che vogliamo costruire insieme. Se qualcuno di voi, le sente come obblighi e forzature è perché non ha capito o non condivide questo progetto comune. In entrambi i casi lo invitiamo a comprenderle e, se ha proposte migliorative, a discuterne con noi nelle sedi adeguate. Queste regole non sono sacre o eterne, sono parte del progetto e destinate a modificarsi man mano che se ne evidenzino mancanze o che il senso comune si modifichi.
A fronte di una premessa del genere sarebbe assurdo riempire le leggi di casistiche e cavilli, che ovviamente finiscono per richiedere una classe di esperti già solo per capirle. Se la legge si riducesse a esprimere il proprio “spirito”, sarebbe fatta di poche parole, comprensibili a chiunque e rimanderebbe a un essere umano (un giudice) la sua applicazione ai casi concreti. Ovviamente questo “umano che decide” rappresenta un rischio, ma l’alternativa è quella che abbiamo sotto il naso tutti i giorni: l’aver reso sacro un insieme di testi incomprensibili alla gente comune che viene inevitabilmente vessata dai sacerdoti di questo insieme di parole. Il risultato è che il ricco che può pagarsi gli avvocati migliori non è affatto allo stesso livello della persona media, che vive il suo rapporto con le leggi come la pallina all’interno di un flipper.
Rendendo sacro il testo abbiamo snaturato il processo di comunicazione che (quello sì) era da considerare sacro.
Il linguaggio dei religiosi integralisti
Parlavo all’inizio anche dei preti. Non tutti, ovviamente, ma anche qui è una tendenza piuttosto diffusa. L’accenno che facevo sopra al Francesco d’Assisi visto da Herman Hesse rende bene l’idea di quest’altro tipo di comunicazione: quella di Dio verso gli uomini. Secondo me non è un discorso riservato ai credenti (Hesse non lo era, in senso proprio), l’ho detto mille altre volte: al posto di Dio possiamo usare altre parole: Cosmo, Mondo, Universo, Natura, Inconscio collettivo, e il concetto di Dio possiamo declinarlo con mille parole diverse: Dio, YHWH , Allah, Brahman, Vishnu, Shiva, Devi, Tao, Buddha, Manitù, Quetzalcoatl, Viracocha, Zeus, Odin e chissà quanti altri. Ma il punto resta: l’uomo è parte di un sistema più complesso e, in qualche modo, interagisce con questo. La Scienza, l’Arte, la Spiritualità nascono per indagare questa interazione, come fanno le discipline che si occupano del microcosmo interiore (la Psicologia e la Psicanalisi, ma anche, per me soprattutto, la Meditazione) e direi anche la Filosofia e la Storia. A tutti questi livelli il dialogo che prende forma tra l’Uomo e “il Resto” è sacro: è la cosa più importante che facciamo come umanità.
Le religioni portano avanti questo “colloquio” con l’Assoluto da secoli e hanno (tutte) prodotto un insieme di idee, di testi che hanno un grande valore come testimonianza di questo lavoro. Ma quello che è sacro non sono quei testi, è sacro il processo che li ha prodotti, processo che è in continua evoluzione. Le religioni hanno prodotto, come tutte le attività umane, anche tantissimi errori, i testi cosiddetti sacri sono pieni di contraddizioni, di parti incomprensibili, di “regole” adatte all’epoca in cui sono stati scritti (in alcuni casi millenni fa) e incongruenti col mondo di oggi.
Considerare sacro un testo significa interrompere quel processo di comunicazione. Pensare che Dio abbia parlato a Mosè sul Sinai e poi se ne sia andato in vacanza per tornare all’epoca di Gesù di Nazareth e poi via di nuovo è piuttosto sciocco. Dio, se c’è, non può che parlare continuamente a tutti gli uomini di tutte le epoche e le geografie.
E quello che è Sacro è il fatto che ognuno di noi può ascoltarlo. Oggi.
“… il mondo ci parla. Continuamente. E noi abbiamo i mezzi per ascoltare e digerire anche questo tipo di comunicazione …”. Io preferisco il verbo “sentire” rispetto ad “ascoltare” nel senso di una percezione di ciò che ci circonda – da parte di chiunque e di qualunque cosa! – che esiste solo nella nostra predisposizione a “ricevere”. Dote sempre più rara anche perché puramente egoistica se non accompagnata da una pari propensione a “dare” in egual misura.
“… sarebbe assurdo riempire le leggi di casistiche e cavilli, che ovviamente finiscono per richiedere una classe di esperti già solo per capirle …”. Condivido, in generale, ma ti ricordo che non così banale affrontare la complessità tramite l’esemplificazione. Anche solo ciò che sembra scontato – distinguere, per esempio. Il bene dal male – a mio parere non è affatto ovvio, anzi!
Per me non esistono “testi sacri”, nel senso di oggettivamente immodificabili in quanto costituiti da verità assolute. Preferisco, come mi sembra condivida anche tu, il processo infinito che porta a conclusioni condivisibili, in quel tempo ed in quel luogo, ma pur sempre continua in evoluzione.