Ho ripreso il corso di “Scrittura Creativa” della UNI3 di Ivrea. “Corso avanzato” quest’anno, fa sentire già esperti solo il nome.
Interessante, come al solito. Interessanti anche i compagni di classe che non conoscevo. Buffo avere dei compagni di classe alla mia età, ma forse non si dovrebbe mai smettere di andare a scuola: il periodo di vita lavorativa è forse quello che ne avrebbe più bisogno, ma lasciamo l’argomento agli articoli che parlano di utopie.
Ne scrivo qui perché mi è piaciuto l’esercizio che ci ha dato la maestra per questa settimana: aprire un libro a una pagina a caso, puntare un punto qualsiasi nella pagina e segnarsi le prime venti parole che fossero sostantivi, verbi o aggettivi. Produrre quindi un piccolo racconto usando tutte e venti le parole trovate.
Mi è piaciuto perché credo faccia trasparire una caratteristica dello scrivere che mi piace molto: uno scavare dentro se stessi. Scrivere è già, in generale, fare questo, tirare fuori cose che hai dentro senza rendertene pienamente conto, far affiorare pezzi di te nascosti alla tua stessa autoindagine. Avere delle regole, dei paletti da rispettare, dei filtri imposti aumenta l’efficacia di questo processo: le prime cose che ti saltano in mente non le puoi utilizzare, sei obbligato a scavare più a fondo. In modo non razionale: non c’è logica in questo lavoro, sei obbligato a usare altre facoltà (che potremmo riassumere nella parola intuito, ma è una parola che sembra svilire il processo).
Guardi questa lista di parole, le accarezzi, le assapori, le lasci scendere dentro ti te, si agganciano ognuna a qualche pezzo delle tue esperienze passate, delle idee maturate, delle sensazioni provate e dimenticate. Questi agglomerati parlano tra di loro. Te ne accorgi, senti il vapore dell’ebollizione salire, annusi l’odore del racconto. Finché qualche idea sfiora la mente razionale e inizi a scrivere.
Non c’è ancora tutto, il pezzo venuto a galla usa solo alcune delle parole, scrivi avendo fiducia che le altre si incastreranno.
Ad un certo punto hai un racconto iniziato, dei personaggi, un inizio di storia che non sai dove vuole andare a parare. La ributti nel calderone assieme alle parole che rimangono. È come buttare una manciata di sale nell’acqua che bolle: il processo accelera, vengono a galla pezzi confusi, aspetti un po’ e qualche altra parola emerge incollata a un altro lembo del brano. Cominci a vedere un senso, un cuore, un finale. Le parole rimaste gli danno la forma finale, lo impreziosiscono. Finiscono per dare un tocco meno banale.
Leggi il racconto e scopri che parla di te, delle tue paure, di una vita che non hai vissuto, magari, ma avresti potuto. Degli occhi con cui guardi il mondo, e scopri che sono lenti che a volte potresti cambiare.
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Le venti parole le ho fatte scegliere a una AI (Gemini), chiedendole di usarne un terzo di meno comuni e due terzi di più usate, le trovate alla fine. Quello che ho prodotto è questo:
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Il racconto
Non era stato abbastanza perspicace da prevedere che l’ultima parte della sua vita si sarebbe svolta in quel modo.
Non si era preparato alla solitudine, ad abitare in un quartiere come quello. Un quartiere che non si poteva certo definire elegante. I soldi, però, erano quelli: ne erano restati pochi dopo una serie di disavventure e aveva dovuto fare di necessità virtù.
I primi tempi si era sentito molto fragile e impaurito: aveva vissuto una vita, potremmo dire, fortunata fino ad allora. Ora mentre perlustrava, ogni giorno un pezzetto in più, il suo nuovo territorio, si accorgeva di soffrire, per lo meno nell’orgoglio, nel rimirare le facciate spoglie e malmesse degli edifici della periferia. I volti, spesso di immigrati, corrosi da un passato certamente meno comodo del suo. I vestiti alla buona, vestiti che, in altre parti della città, molti avrebbero esitato a indossare per strada. I bambini, numerosi, a cui i genitori non prestavano quell’attenzione impaurita che veniva data loro in quartieri più eleganti.
Il futuro gli era sembrato alquanto nebuloso per un po’ di tempo.
Era scivolato in una sorta di depressione. Usciva poco di casa: solo l’essenziale per procurarsi da mangiare e per commissioni improrogabili. Passava il tempo sulla sua poltrona a guardare il mondo diffuso via etere dai canali d’informazione, quasi per illudersi di non essere lì, di abitare ancora in quel mondo più ricco che si affacciava spesso nei filmati trasmessi.
Non se la sentiva addosso la depressione, anzi, indugiava volentieri in questo atteggiamento: se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe detto di essere, se non felice, appagato.
Finché un giorno incontrò Martina.
Saliva le scale correndo davanti alla mamma, abitavano al piano sopra al suo, mentre lui apriva la porta per uscire a fare compere.
Quel “Ciao, come ti chiami?” lo colpì per la freschezza, la spontaneità, la potenza con cui ridicolizzava qualsiasi convenzione sociale. O forse a colpirlo fu la voce, che trasudava allegria e voglia di vivere. O il sorriso, che in un istante disintegrava la bolla di malinconia in cui si era rinchiuso.
Un po’ frastornato ignorò lo sguardo con cui la mamma della bambina si scusava di averlo disturbato, si chinò e rispose: “Io sono Riccardo, e tu?”.
Si fermarono un po’ a parlare e venne a sapere che la bimba aveva problemi a scuola. Le insegnanti si lamentavano del fatto che fosse troppo vivace e lei rispondeva semplicemente che non riusciva a stare attenta perché era tutto così noioso. Avrebbe avuto bisogno di ripetizioni, soprattutto di matematica, ma la mamma non poteva permettersele.
Non ricordava nemmeno come prese la decisione, né perché: si offrì lui di aiutare la piccola. Pertanto tutti i pomeriggi la mamma la accompagnava nel suo appartamento e lui, dopo essersi informato del programma scolastico ed essersi procurato i testi, si era industriato nel trovare approcci che rendessero i vari argomenti più appetibili.
Dopo poche settimane i progressi erano stati evidenti, le insegnanti stupite, e “nonno Ricky” si era trovato in breve a far ripetizioni non più a una, ma a una decina di allievi.
Le sue giornate erano diventate più vivide, meno grigie. Era altamente qualificato per quel tipo di attività e, visti i primi successi, si era dedicato con fervore a escogitare modi per rendere interessanti anche le tematiche più ostiche. Aveva persino deciso di parlare agli insegnanti per concordare l’uso di alcune sue idee direttamente a scuola, ma li si era scontrato con uno scoglio imprevisto: non capì nemmeno se l’indifferenza con cui fu accolto fosse dovuta a orgoglio o pigrizia, comunque non se ne fece niente.
Lo strano epilogo di questa vicenda fu che le rare volte che si ritrovava a passare per i quartieri più ricchi della città, quelli in cui la gente gira con vestiti più eleganti, quelli in cui le facciate degli edifici sono sempre in ordine e le mamme salgono in ascensore ed educano i figli a non importunare gli estranei, non vedeva l’ora di ritornare nel suo mondo. Quello in cui c’era ancora gioia di vivere. Quello vero.
Le 20 parole
| Tipo di Parola | Parola | Frequenza / Categoria |
|---|---|---|
| Sostantivo | — Fervore | Meno Comune |
| -Verbo | — Abitare | Comune |
| -Aggettivo | — Elegante | Comune |
| Avverbio | — Altamente | Comune |
| – Sostantivo | —- Solitudine | Comune |
| – Verbo | — Perlustrare | Meno Comune |
| Aggettivo | — Fragile | Comune |
| Avverbio | — Volentieri | Comune |
| Sostantivo | — Etere | Meno Comune |
| Verbo | — Soffrire | Comune |
| Aggettivo | — Nebuloso | Meno Comune |
| Avverbio | — Alquanto | Comune |
| Sostantivo | — Scoglio | Comune |
| Verbo | — Concordare | Comune |
| Aggettivo | — Vivido | Comune |
| Avverbio | — Anzi | Comune |
| Sostantivo | — Epilogo | Meno Comune |
| Verbo | — Indugiare | Meno Comune |
| – Aggettivo | — Perspicace | Meno Comune |
| Avverbio | — Pertanto | Comune |

Interessante, come sempre, l’esperienza delle 20 parole. Ti soffermi soprattutto sul “come” scrivere, qualcosa che si può imparare o migliorare dal punto di vista dell’approccio, della tecnica, del metodo. Aggiungerei, banalmente, che la “spinta” a scrivere si può sintetizzare in un unico motivo: che qualcuno legga, perfino se la platea dei lettori – caso estremo ma non raro, ad esempio, per quanto mi riguarda! – si limitasse al solo autore del testo. Comunicare, insomma, con gli altri ma, prima ancora, con noi stessi. Scrivere vuol dire, insieme, molte cose; è facile, faticoso, gratificante, doloroso e tanto altro, come nell’esempio che riporto nel seguito:
“Guardava il monitor del suo computer. Al centro del foglio bianco, in Times New Roman, corpo 14 maiuscolo grassetto, aveva scritto la parola FINE. L’orologio segnava le 23:30. Sull’orlo del Precipizio, il suo ultimo romanzo, era terminato. Due anni, sei mesi e tredici giorni, tanto era costato in termini di tempo. A questo si dovevano aggiungere |’ansia, la fatica, le notti insonni, i dolori alla cervicale, 862 pacchetti di sigarette, tre influenze, 30 rate di mutuo. Alle 23:30 di quel 2 ottobre 2015 guardando quella parola semplice di due sillabe, Giorgio Volpe, uno dei più grandi scrittori italiani, si interrogava sul suo stato d’animo. Come sto? si chiedeva …”
È l’incipit di “Sull’orlo del Precipizio” di Antonio Manzini, pubblicato nel 2015, letto qualche giorno fa. Un librettino che, sulle orme di “Fahrenheit 451”, immagina un devastante futuro per le attività editoriali e mi ha suggestionato su quanto sarà invadente, in questo campo, l’utilizzo dell’IA. Già oggi ci sono autori di successi seriali (Dan Brown ad un estremo, Ken Follett dall’altro, per utilizzare due recenti esempi) che scrivono e riscrivono lo stesso libro cambiando il minimo indispensabile: il contesto, i nomi dei protagonisti e poco altro. Una noia mortale, almeno per me, ma che evidentemente serve a produrre innumerevoli best seller. Ma, mi domando, chiunque di noi scriva qualcosa non fa, più o meno inconsapevolmente, la stessa cosa? Boh …